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manifesto della casa dello sciopero

LA CASA DELLO SCIOPERO SI TROVA IN VIA DEAMICIS 16, ACCANTO ALLE COLONNE DI SAN LORENZO

RAGGIUNGETECI…

Manifesto della Casa dello Sciopero di Milano
un punto d’incontro per andare oltre lo sciopero generale

La Casa dello Sciopero di Milano è un mezzo a disposizione di chi vuole usarlo.
E’ aperta nella misura in cui vuole rendersi raggiungibile.
E’ illegale nella misura in cui vuole essere efficace, determinata.

Idee, strumenti, strategie ed azioni sono alla base della sua costruzione. La Casa dello Sciopero non è uno centro sociale né uno squat. Esisterà finché ce ne sarà bisogno, finché finalmente non verrà superata.

Abbiamo bisogno di occupare perché necessitiamo di un luogo dove poter affinare tecniche e scambiarsi saperi in vista dello sciopero del 28. Squarciando il ritmo metropolitano diamo tempo e spazio per organizzarsi al di fuori del 28, in vista di uno sciopero o della fine di esso, per andare oltre.

1. Se il lavoro è ovunque, lo sciopero deve farsi diserzione

Considerando il destino della nostra esistenza, lo scatenamento totale di energia e la disciplina spietata a cui essa è sottomessa, le regioni intere immerse nel fumo e illuminate dalle ciminiere, le città dove si accumulano milioni di esseri, intuiamo con sgomento che non c’è più ormai nessun atomo estraneo al lavoro e che siamo tutti dedicati a questo processo frenetico. L’aspetto più importante di questa mobilitazione totale non è quello tecnico ma quello della disponibilità ad essere mobilitati.

La metropoli, momento storico in cui coincidono il massimo della circolazione con il massimo del controllo, mondo di flussi, di quantità, di variabili, è la nostra condizione. Il processo di metropolizzazzione non è tanto un cambiamento urbanistico, ma sopratutto una rivoluzione antropologica. Il campo di battaglia è il nostro proprio essere. La metropoli vince ogni volta che ci consideriamo noi stessi e i nostri simili dal punto di vista economico.

E’ proprio perché non abbiamo ancora preso la misura di questa rivoluzione che continuiamo ad agire politicamente in un modo inadatto all’epoca che viviamo. E’ per questo che tutte le forme politiche della politica classica, compreso lo sciopero generale sono destinate a fallire. E’ per questo che si sta inventando, sotteraneamente, dappertutto nel mondo, lo sciopero metropolitano.

2. Distruggere il mito dello sciopero generale, attuare lo sciopero metropolitano

Lo sciopero generale è innanzitutto un mito, uno dei miti fondatori della sinistra. La classe dei produttori che smette di produrre, abbattendo cosi la classe degli sfrutattori. Gli operai che ballano nelle fabbriche occupate. Lo sciopero generale è sempre più un’immagine, sempre più lontana e sfuocata. Non è il momento di averne nostalgia. Invece, è il momento di smettere di credere a questa favola e di volgere lo sguardo a tutte le forme di sciopero attuali che covano sotto l’apparente sconfitta del movimento operaio.

Nel vissuto quotidiano si aprono e si richiudono numerose crepe, momenti di sciopero diffuso in cui prendiamo il sopravvento sulla metropoli; comportamenti spontanei che la polizia identifica e isola come forme irregolari, illecite, illegali. Riprodursi e isolarsi in un ruolo specifico, essere studenti, essere lavoratori: rifiutando questo, lo sciopero prende la forma di una diserzione.

Non pagare il biglietto, marinare la scuola, mettersi in malattia, prendersi la merce, coprire chi se la prende; lo sciopero è centrale in ogni atto che ci rivela contro la metropoli. Le crepe aperte devono tardare il più possibile a richiudersi, possibilmente mai. Per questo si rende necessario la presenza di un luogo in cui poter costruire continuità e potenza in ogni atto scioperante. Un’occupazione che sia essa stessa un’intreccio di relazioni e di vissuto comune scioperante.

3. Non vogliamo soltanto smettere di lavorare, vogliamo che non ci sia più lavoro

Il nostro compito non è tanto di scoprire la nuova forma dello sciopero ma piuttosto quello di raccogliere tutte le pratiche che sono rimaste nell’angolo morto del movimento operaio classico. Non considerare più il nostro passato, la tradizione delle lotte, come una somma di memorie da preservare, da studiare o da dimenticare ma ritrovare le potenze storiche che non sono state attuate, perché niente di ciò che ebbe mai luogo è perso per la storia.

Non odiamo ciò che produce questo mondo, odiamo il fatto che vediamo ormai tutto il mondo come prodotto. Uscire dal punto di vista della produzione non significa solo andare oltre lo sciopero della produzione materiale e colpire anche la riproduzione, la circolazione, l’ideologia o il linguaggio. Perciò lo sciopero metropolitano è di chi rifiuta di definirsi a partire dal suo ruolo dentro (o fuori da) il rapporto di produzione.

Non c’è più nulla da rivendicare, non c’è più nulla da criticare, non c’è più nulla da rimproverare ai padroni o ai politici. Scioperare deve di nuovo essere considerato come un atto positivo, come l’invenzione di un tempo nostro al di là del tempo storico, come il ritorno di ciò che il lavoro sospende sempre: il dispiegamento della nostra propria attività, della nostra propria essenziale inoperosità.

4. Una politica all’altezza dell’assenza di opera dell’uomo

È necessario comprendere il carattere attivo e pratico dell’inoperosità, concetto che è facile da criticare per la sua presunta tendenza all’immobilismo, soprattutto in chiave politica. L’inoperosità, al contrario, si inserisce in un ampio contesto di disattivazione dell’economia, di riconsiderazione del valore della produttività, valore che nella nostra società sembra non essere mai messo in discussione, neanche dalla critica comunista al pensiero capitalista.

Lo sciopero permanente ci fa divenire inoperosi e ci apre alla potenza della prassi. Il paradigma dell’inoperosità è la festa: durante la festa gli uomini devono astenersi da qualsiasi attività. Proprio l’elemento della finalità produttiva è decisivo. Ciò che si fa nella festa non è, di fatto, diverso da ciò che si compie ogni giorno; ciò che si fa viene però reso inoperoso, viene dis-fatto, liberato e sospeso dalla sua “economia”, dalle ragioni e dagli scopi che lo definiscono nei giorni feriali (il non fare è, in questo senso, solo un caso estremo di questa sospensione). Se si mangia, non lo si fa per assumere cibo; se ci si veste, non lo si fa per coprirsi o ripararsi dal freddo; se si veglia, non lo si fa per lavorare; se si cammina, non è per andare da qualche parte; se si parla, non è per comunicarsi delle informazioni; se ci si scambiano oggetti, non è per vendere o per comprare.

Milano, il 25 gennaio 2011

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